A cuore aperto

06/04/23

Non e’ la prima volta che ricevo la notizia della morte di uno dei miei maestri, ma lui era sicuramente il più importante di tutti. Relatore di triennale, specialistica e dottorato, lui ha segnato più di chiunque altro la mia formazione universitaria, sia scientificamente che umanamente. Un modello, un esempio, un riferimento. Era l’accademico che sarei voluto diventare: scientificamente eccellente, impegnato in politica nel giusto e, naturalmente, dalla parte giusta. Tuttavia, era anche un battitore libero, indipendente di pensiero ma anche e soprattutto come persona. Un economista fra i manager del politecnico. Rigoroso metodologicamente e capace di capire come le analisi influenzassero le decisioni pubbliche, si trovava in una facolta’ dove si tendeva a filosofeggiare sul progettare. Ma non credo che avrebbe resistito a lungo fra gli economisti duri e puri.

Sono cresciuto come un Planner (quindi un non-architetto) con specializzazione in economia (ma fra gli ingegneri gestionali). Mi ha insegnato interdisciplinarità e, anche grazie alla moglie anch’essa mia professoressa, la transdisciplinarieta’. Perche’ se l’analisi delle politiche pubbliche (i miei primi due maestri, entrambi gia’ scomparsi) si impara il “come” si decide, e’ l’economia che ti guida sul “cosa”. Solo aver avuto maestri in entrambe le direzioni ho potuto maturare una comprensione delle dinamiche sociali collettive siano esse della citta’/regione o a piu’ ampia scala: conta il cosa E il come.

Affascinante nel parlare, libero pensatore, scientificamente ineccepibile.

Tuttavia, mi sorgono molti “si’ ma…” in questo momento. Perche’ fui accolto come una moto fra i trattori: a cosa serve una moto se devi macinare, arare, smuovere. Qualcuno avrà detto che era una buona moto e che se voleva venire in fattoria, perche’ no. D’altra parte, era la miglior fattoria altamente produttiva ed efficiente, un’indiscutibile eccellenza. Era l’esempio di riferimento e magari una moto sarebbe servita. Forse la metafora non e’ azzeccata, ma se ripenso agli anni del dottorato, la mia scelta di indipendenza (abbandonare il planning verso una formazione gestionale-economica) non fu felicissima. Non ricordo di essere stato all’interno di un quadro educativo. Il percorso di formazione era da artigiano che impara il mestiere a bottega, ma ahimè i tempi erano cambiati e serviva un piano educativo.

Chi ha seguito queste righe virtuali sa che gli anni del dottorato sono stati difficili, frustranti con conflitti sottaciuti fino alla decisione, sofferta e amara, di dover emigrare, andandomene da quel percorso politecnico per cui mi ero impegnato tanto. Ancora oggi rimane un forte risentimento per come il Politecnico mi abbia trattato. Quando lo annunciai, venni accusato di aver fatto fallire un progetto di investimento su di me di cui non mi ero mai reso conto e, a tutt’oggi, mi chiedo quale fosse. Un progetto mai concretizzato da chi si addormento’ l’unica volta che ebbi l’opportunita’ di presentargli la mia tesi, che non si presento’ alla mia difesa di dottorato (perché’ gia’ sapeva che me ne andavo) e che, in seguito, si rifiutò di firmare lettere di referenza per delle posizioni a cui feci domanda. Con lui ho una sola pubblicazione su un capitolo e non mi fece mai fare un articolo scientifico, così compromettendo le mie future prospettive di carriera accademica. Diceva che non erano importanti e bastava la tesi, senza capire che il mondo scientifico era irrimediabilmente cambiato. Come si può capire, ne porto un certo risentimento. Ripensandoci ora, non posso dire che il dottorato fu un’esperienza positiva.

Eppure oggi, accendendo un cero in Chiesa per lui, sono stato invitato al perdono. Voglio pensare che abbia fatto tutto in buona fede, avendo dovuto navigare in un ambiente tossico. Restando col vento in poppa grazie al rigore scientifico e all’ambizione di riuscire a fare ricerca di rango europeo/mondiale. Veniva dagli anni ’80-’90 e fu eccellente per quel periodo. Un pioniere ma, per onestà, bisogna dire che non fosse un team leader.

Mi risuona nelle orecchie una frase di una delle mie amiche più importanti, allora come ora. Diceva che a un certo punto avrei dovuto rescindere il cordone ombelicale col politecnico e confrontarmi con un mondo adulto. Ecco, oggi capisco che quell’esperienza fu la transizione, rude e schietta, verso l’età adulta. Capisco ora che molte delle mie ossessioni, come la necessità di pianificare, di conoscere la direzione, di sentirmi ascoltato, nascono da quegli anni forgiati tra ambizioni scientifiche e un ambiente per nulla attento all’ascolto umano. Non a caso, conservo ancora contatti con l’unica persona che si contraddistingue per intelligenza emotiva (guarda a caso, l’unico altro cattolico di quel gruppo). Capisco che bisogna tagliare il cordone, capisco sia stato un processo doloroso. Capisco molti dei miei errori ma anche che non si può restare tutta la vita in una culla. Capisco i miei nonni che dovettero lasciare le loro città di origini e come loro arrivano a Milano (e in fondo credo furono felici), così io ho dovuto lasciare Milano e arrivare altrove.

Capisco anche che anche lui recise i cordoni con la Bocconi e venne al Politecnico, economista fra ingegneri e urbanisti, affascinato dagli architetti senza esserlo. In questo lo ammiro perché ha sempre portato avanti la sua strada, la sua navigazione senza compromessi.

Riposi in pace. La sua nave arriva in porto dopo un viaggio eccezionale. Molti dei suoi insegnamenti resteranno e la grandiosità e’ che sono insegnamenti complessi, mai banali né univoci, non solo scientifici, ma molto molto umani.

Chiudo chiedendomi se sia giusto aver scritto tutto questo qui. Forse si’, forse che no. 

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