Prendersi il tempo per ragionare e fare la cosa giusta

13/04/08

Il tema dello sviluppo sostenibile dovrebbe essere la prima preoccupazione di tutti. Torno ora dalla Fiera "Fa' la cosa giusta" dove sono presentate moltissime realtà che pongono questo tema al centro della loro vita in maniera concreta, pragmatica, professionale. Affrontandolo con ragionevolezza e serietà, che non significa che non facciano errori, né che siano tutti d'accordo, né che tutti mi piacciano, ma che si ragiona nella sfera del possibile nella giusta direzione.
Mi ha sorpreso non tanto re-incontrare tanti persone care (non è l'unico posto, né c'erano tutte), ma ho rincontrato lì chi di questo tema ci fa la sua vita, associativa o professionale come ricercatore o imprenditore. E questo è bello.

Per quel che mi riguarda, un passaggio fondamentale risiede in incontro che, per me, segna indissolubilmente un prima e un dopo. Ne parlai in un vecchio post a cui seguirono alcuni scambi di mail, di cui una importante (che pubblico qui sotto). Il confronto intelligente tra persone più moderate come me ed estremisti radicali intelligenti (l'ultima caratteristica è la più importante) mi ha fatto messo in testa un tarlo positivo, uno stimolo a interrogarmi e ragionare di più. In particolare, il mio amico Enrico mi mandò la mail che incollo qui sotto ed a cui rispondo, più o meno per punti o... insomma, come viene viene. Perché, e questa credo sia la più bella qualità di gente come Enrico e Lucia, si può arrivare a parlare delle cose importanti in maniera intelligente senza paura di dover rispettare troppi formalismi.

Enrico scrive (testo suo, a parte alcune correzioni legate al cambio di formato):

Dopo aver letto il post di capodanno del tuo blog, compresa la risposta del tuo amico Lucio e la tua, colgo l’occasione per approfondire il tema della mobilità, forse senza colpa frainteso da Lucio a causa dell’inevitabile sintesi che operasti. (come vedrai la mobilità è un pretesto per parlare della mia visione più generale delle cose, ma in realtà è essa stessa che, estremamente interconnessa con le più varie sfaccettature dell’esistenza, si fa pretesto…)

Muoversi, spostarsi, viaggiare, correre, e rincorrere… ma fermiamoci un momento: verso dove?

Non voglio certo negare la possibilità e la grande utilità dell’attuale potersi spostare nel territorio, ma come spesso accade si perde di vista il motivo del fare ciò che si fa.

Allora fermiamoci e proviamo a capire.

Io viaggio per conoscere, per vedere, per passare del tempo con chi non è a portata di mano, ma anche per andare al lavoro, all’università, a fare spese, a fare commissioni, a divertirmi o ricrearmi, per staccare dalla quotidianità e concedermi un po’ di vacanza, o solo per il gusto di viaggiare, e sono solo un privato, uno studente, un giovane.

Cosa accade a livello globale, quando sei miliardi e mezzo di esseri umani iniziano ad avere le mie o altre necessità? (Fortunatamente, non siamo così tanti a poterci permettere un tale lusso, forse solo un miliardo e mezzo di persone può godere della possibilità di muoversi della quale godo io o forse meno.)

Beh, il risultato è sotto i nostri occhi: traffico, inquinamento, sensibili perdite di tempo di vita (e per alcuni anche di soldi), incidenti con feriti e morti, in sostanza un’enorme spesa a carico dello Stato, della collettività e della serenità di vita delle persone (possiamo anche definirla diminuzione della qualità della vita).

“Ma è colpa dei camion!” dice chi la sa lunga.

Si, è vero, i veicoli industriali in circolazione (soprattutto in Italia) sono tantissimi, non so veramente quantificarli, ma quello che mi interessa non è tanto il loro numero o la percentuale sul totale dei mezzi circolanti, quanto piuttosto sapere cosa trasportano e perché la trasportano.

La globalizzazione ha portato immensi vantaggi, io che vivo in una regione geografica che non permette alle banane di crescere, posso andare al supermercato vicino casa e comprarmi un bel caspetto giallo.Grosso vantaggio se non si prende in considerazione il fatto che per gustarle, queste banane hanno percorso dai 9 ai 12000 km in nave o aereo, consumando una buona quantità di combustibili fossili, sono state coltivate con metodi non ecologici e non sani sia per l’ambiente che per le persone che vi hanno lavorato (peraltro molto spesso sfruttate) che per noi consumatori.Ma soffermiamoci sullo sfruttamento dei poveri popoli del terzo mondo, che fortunatamente il commercio equosolidale ha risolto.

Il giustissimo commercio equosolidale non tiene in considerazione un piccolo dettaglio, il contadino che produce banane con l’innovativa tecnica della monocultura industriale (cioè a grande scala e grande uso di concimi e anticrittogamici di sintesi, che possiamo chiamare petrolio e metano e che servono a chi li produce per ridurre in schiavitù chi li compra), anche se ben retribuito, sta producendo un prodotto da esportazione a basso rendimento, lavora cioè tutta la giornata (magari aiutato da moglie e figli in età scolare) per guadagnare qualche spicciolo, che nel migliore dei casi gli basta per mantenere tutta la famiglia, cioè usa questi soldi per acquistare ciò di cui necessita per vivere, principalmente cibo e beni di prima necessità.

Il rapporto tra qualità della vita e quantità di lavoro, non mi pare molto vantaggioso, anche perché i suoi avi si coltivavano e costruivano ciò di cui necessitavano in meno di 3 ore al giorno, quando andava male, poi c’erano quelli più furbi che si limitavano a raccogliere il cibo che la generosissima natura equatoriale o subequatoriale gli offriva e dedicavano il loro tempo alla cura del proprio spirito, ma questa è un’altra storia…

Certo è che forse ora si possono permettere le sigarette e gli alcolici che prima nemmeno si sognavano, o una bella televisione per rincoglionirsi un po’, ma lascio cercare a voi dove sta il vantaggio. Forse ho dimenticato di accennare che io misuro la qualità della vita da un indicatore sociale piuttosto anomalo, la felicità.

Chiudendo la parentesi terzo mondo, vorrei tornare a noi occidentali. Ci sono città di centinaia di migliaia di abitanti, qualcuna di milioni, ma non è proprio il caso italiano, beh, tutta questa gente dovrà pur mangiare, no?

E mi risulta che in città non ci sia molto spazio per coltivare, ma, grazie alla nostra efficientissima rete infrastrutturale, ci facciamo quotidianamente arrivare tutto ciò di cui abbiamo bisogno dritto dritto sul banco del supermercato.

E che c’è di male?

Innanzitutto il fatto che abbiamo perso completamente il contatto con la natura ed i suoi cicli e di questa fa parte il cibo che mangiamo, che non è più cibo che viene dalla terra, ma più dal sottosuolo, dato che è creato grazie ai soliti amici petrolio e metano, senza parlare della saggezza e capacità popolare di auto prodursi il cibo con tecniche millenarie rispettosissime dell’ambiente.

Non solo non riusciamo più a capire cosa ci mettiamo in bocca, che sicuramente non fa bene alla nostra salute, ma non ci preoccupiamo nemmeno del fatto che la produzione di questo cibo sta distruggendo l’ambiente, che non è solo un substrato inerte, ma la fonte stessa della nostra vita.E sfido chiunque a provare il contrario, cioè a vivere su un pianeta privo dei cicli naturali che danno acqua da bere, fertilità al terreno e biodiversità.

La vita sulla terra non è un semplice gioco meccanico tra forze, bensì un complicatissimo intreccio di elementi vivi che, grazie alla loro complessa esistenza ed interazione, permettono di mantenere in equilibrio il tutto.

E non sono così presuntuoso da dire che l’uomo distruggerà il pianeta, solo che se vogliamo continuare ad esistere dobbiamo fare attenzione a che il pianeta non trovi un equilibrio diverso da quello attuale che magari non prevede l’esistenza dell’uomo.

In realtà penso anche che, facendone parte, non possiamo non vivere a contatto con la natura, nostra mamma e nostra compagna di vita, ma non è facile spiegare qualcosa che sento dentro, che percepisco, e quindi non è da tutti tangibile, soprattutto a chi con essa non è mai entrato in contatto. Perché purtroppo se nasci in città, una città grande, a chilometri di distanza da un bosco, in mezzo all’asfalto ed al cemento delle scatole in cui viviamo, pieno di tante cose create dall’uomo e non ti sei mai fermato a sentire gli odori ed i sapori, ad ammirare i colori, a percepire l’energia della viva terra in un bosco, forse non potrai capire ciò che sto provando a spiegarti.
Ma prendiamola in modo più razionale ed analizziamo dei semplici dati, l’incidenza di malattie mentali che si hanno nelle grandi città e quelle della campagna. La bilancia pende chiaramente a sfavore della città, ma forse questo è aleatorio e potrebbe essere una pura coincidenza, o legato ad un’innumerevole quantità di fattori terzi…

Forse è meglio tornare al nostro tema, la mobilità. Si accennava alle vacanze, questo modernissimo concetto legato al lavoro. Perché la vacanza è un indiscutibile diritto acquisito dall’uomo moderno, il lavoratore.

Certo è che se ti spacchi la schiena (ma potrebbe essere qualcosa di più piccolo lì in basso) 8 ore al giorno per 5 giorni alla settimana, nel week end hai tutto il diritto di riposarti e rigenerarti e lo stesso a Natale, Pasqua e Ferragosto, al mare in montagna o nella seconda casa ovunque sia. Così prendi la tua bella macchinina lucida lucida e te ne vai, solo o con la famigliola, a rigenerarti da qualche parte. Preoccupandoci del traffico e dei disagi creati dai periodici esodi delle vacanze intelligenti, perdiamo come sempre il punto della situazione, il perché di tutto ciò. Se vuoi mangiare devi lavorare, dice l’onesto e saggio uomo, e così lavorando ci stressiamo e di tanto in tanto necessitiamo di un po’ di rigenerante riposo, quindi di vacanza.

Tutto fila, anche perché ormai ci siamo talmente abituati a questo che non c’è nulla di più normale. Ma non ci sarà un altro modo di lavorare, meno stressante, meno faticoso, meno duro, meno e basta. Perché, con tutta la tecnologia che abbiamo inventato dobbiamo ancora lavorare così tanto e così male? Per permetterci di avere tutto ciò di cui abbiamo bisogno?

Ma in fondo ne abbiamo bisogno di questo tutto, o potremmo forse vivere bene, o forse meglio, senza un’auto nuova, un televisore al plasma, un nuovo modello di cellulare, andare a cena fuori, avere sempre un vestito alla moda, una seduta abbronzante alla settimana, un abbonamento alla palestra, e chi più ne ha più ne metta?

Tornando al mio metro di giudizio, tutto ciò ci rende più felici?

O forse coltivare rapporti umani, che è gratuito, stare in contatto con la natura, che è gratuito, passare più tempo con i propri cari, che è gratuito ed a volte fa pure risparmiare (vedi asili ed ospizi), dare più attenzione e tempo alla propria alimentazione, che è sicuramente un risparmio in medicinali e cure, ed in generale, dedicare più tempo alla propria vita ed ai propri interessi, che è anch’esso gratuito, non rende la nostra vita più degna di essere vissuta e noi più felici, innalzando quindi il livello di benessere e cioè della felicità?

Forse non tutti la pensano così, però le statistiche mondiali sulla felicità vedono tra i primi posti i paesi sottosviluppati del terzo mondo e quelli industrializzati nelle ultime posizioni. Ma sarebbe sufficiente fare un giro per la città e chiedere alle persone che si incontrano se sono felici, nonostante la loro abbondanza di cose, questo basterebbe a capire la situazione.

In questi minuti, mentre tu leggevi, l’umanità ha compiuto milioni di chilometri, ma la domanda è: verso dove?

Non certo verso la felicità, personale o sociale che sia.

Però a me non piace gettare sassi e poi scappare, quindi vediamo quali potrebbero essere le possibili soluzioni ai problemi che mi sono posto.

Se vivessimo in gruppi di minor dimensione, più diffusi sul territorio ma fortemente coesi a livello locale, di comunità, con più spazio per coltivare ognuno un po’ del cibo che ci serve per vivere, con tecniche dolci e non violente, risparmiose e rispettose, se ci auto producessimo all’interno della comunità tutto ciò che ci serve per vivere, ad esclusione di ciò che è tecnologicamente troppo complesso da produrre diffusamente, se cercassimo di utilizzare, riutilizzare e riciclare i prodotti, invece di limitarci ad un insensato usa e getta, i prodotti, non realizzandoli in nome del commercio fine a se stesso ma affinché durino nel tempo, se guardassimo di più dentro di noi ed un po’ meno fuori, se dedicassimo attenzione e amore a chi ci sta intorno, invece di correre avanti e indietro senza meta, se vivessimo di cose utili e vere invece che effimere ed illusorie, forse scopriremo che non abbiamo poi bisogno di tutte queste cose che ci riempiono la vita e sapremmo essere più felici con molto meno, con grandi vantaggi per l’umanità intera.


Rispondo seguendo, più o meno le tematiche da lui proposte. C'è però una doverosa premessa da farsi: scriverò soprattutto dei punti su cui sono in disaccordo perché, su moltissimi principi siamo d'accordo e lo dimostra il fatto che questo è il tema su cui voglio spendere tempo per ragionare.

Del movimento.
Il movimento è un valore? Non lo so, tendenzialmente direi di sì perché è un segno di libertà. Ci si muove inutilmente? A Milano in dialetto si dice "pirlare" quando si gira a zonzo. E spesso, guardando Milano, ma così le altre città, si ha questa sensazione. Trovo questo un buon punto di partenza anche se, forse, non è su questo che mi voglio soffermare. Il movimento c'è e genera (anche) benessere. Si inquina? Sì, è vero, come un po' tutte le attività antropiche. Si è calcolato che il miglior modo per ridurre queste cose sono... le tasse! Le pesanti accise sulla benzina dei governi europei, se applicate anche negli USA, permetterebbero una razionalizzazione/riduzione drastica dei consumi e constringerebbero le case automobilistiche a ridurre i consumi. E' stato così negli anni '70 con le prime grandi crisi petrolifere e sarà sempre di più data la sempre più stringente disponibilità di questa risorsa. Detto questo, il movimento c'è. Darei un valore moderatamente positivo perché, hai ragione, molti movimenti sono inutili, non positivi, talvolta decisamente negativi (le migrazioni).


Del commercio equo e solidale
Io ci credo, mi piace, sono convinto sia la strada giusta perché coniuga economia e sviluppo sostenibile. L'Economia, ne parlammo quando veniste a Milano, c'è, con le sue leggi sociali, la sua razionalità, la sua scientificità. Questo è il piano descrittivo, come funzioni l'economia è oggetto di studio, mentre il giudizio su di essa (giudizio morale, ma soprattutto etico) va articolato: l'economia non può essere un male solo perché c'è. L'economia ha cose buone e cose cattive, come tutte le cose che ci sono. Il Commercio Equo e Solidale (CES) cerca di portare una serie di valori etici all'interno di quella razionalità, razionalità che come ripeto si è affermata, consolidata e radicata in secoli e secoli di storia umana. Per Economia ovviamente intendo quella di mercato (e la sua presunta negazione, ovvero l'economia pianificata o comunista). Il CES dice che si può dare una diversa distribuzione del profitto nella catena del valore, ma soprattutto che l'extra-profitto può essere usato dall'imprenditore non per comprarsi la sua barca a vela, ma reinvestendolo in progetti di pubblica utilità (per produrre beni pubblici), che sono scuole, pozzi, ospedali. Il CES accetta la razionalità economica e vi introduce valori etici. In questo mi piace, anche perché l'economia di mercato c'è e ci sarà, ma non è tutta uguale.

Della città
La città, così come l'economia, c'è, c'è stata ed è ragionevole pensare che sempre ci sarà. La storia umana è iniziata con la prima città (Gerico nel 4.000 aC, forse). La città è un modello insediativo che ha attraversato tutti i secoli, millenni di storia lasciando in minoranza chi le dava contro. E' una caratteristica ormai strutturale nella storia umana. Questo non significa che tutte le città si siano sviluppate bene o meglio che nello sviluppo delle città tutto sia positivo. La città c'è e ci sarà, ma questo non significa che non possa essere corretta. E' vero che si sono perse molte conoscenze della vita in insediamenti più piccoli, ma se ne sono acquisite di nuove e, personalmente, la spinta alla socializzazione, intesa come costruzione di una società dove più individui si incontrano e confrontano, io credo sia un valore. Ricollegandosi al tema del movimento, indubbiamente possiamo ricollegarci al tema del movimento ed auspicare città con mobilità sostenibile: treni e metrò contro le auto di cui parlavo prima.

della salute
Questo è un tema che mi sta particolarmente a cuore perché, più di ogni altro, dice chiaramente che la società umana sta vivendo un incredibile sviluppo. I miglioramenti in campo medico-sanitario sono talmente incredibili che questo modello di sviluppo che abbiamo merita stima. E' vero che non tutto è perfetto, ma prendi per esempio il solo dato della mortalità infantile com'è cambiato in Italia (o in altri paesi) negli ultimi 100 anni. E' vero che continuiamo ad ammalarci, che l'inquinamento genera tumori e che la città porta alla depressione, ma ora i bambini che muoiono sono drasticamente di meno e la speranza di vita s'è allungata in maniera incredibile. Come si può forse negare che ci sia stato un progresso che nessun altro modello di sviluppo (es. la civiltà rurale italiana) ha saputo garantire.

della vacanza
La vacanza si contrappone al tema di una società dove il lavoro aliena. Ma è anche vero che, per esempio, la vacanza è un momento di confronto-incontro con realtà altre incredibile. In vacanza, a Rimini o dove volete voi l'Italia si ritrova, si conosce: il milanese di fianco all'ombrellone del romano, un contatto altrimenti impossibile. La Toscana del quattro-seicento ha costruito un modello di sviluppo inconsciamente su questo: i nobili andavano in villeggiatura in campagna (pensate alle commedie di Goldoni), lì incontravano gli ambiti rurali e da questo scambio di conoscenze nacque uno sviluppo economico, tecnologico, culturale, artistico e sociale che non aveva pari.

della traiettoria di sviluppo
I nostri genitori si sono impegnati a darci quel televisore, quel forno, quel frigo che loro non hanno avuto. L'hanno fatto per amore nostro e per darci quell'agio che loro non avevano. In quest'intenzione non si può non lodarla. Hanno sbagliato? Sì. Hanno commesso errori? Sì, ma non possiamo pensare che noi non li si commetterà ancora. E allora sta a noi imparare da loro e correggerli, attaccandoci alla sfera del possibile.



Credo che tutto questo post sia sufficientemente lungo e, ammetto, la stanchezza sta un po' avendo il sopravvento su di me ora. Ci tengo solo a chiudere ribadendo che qui ho messo solo le obiezioni e le cose su cui sono in disaccordo con Enrico, del cui discorso invece condivido tutto quello che non ho criticato. Spero che i (pochi) lettori abbiano la pazienza di ragionare e riflettere perché questi sono i temi importanti.

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