per un'etica della scoperta
26/04/16
Esiste un mito molto americano che impone di sapere sempre cosa si vuole, dove si vuole arrivare. Avere le idee chiare, avere obiettivi ben definiti, sapere chi si è e sapere qual è la metà, per poi dimostrare di saper affrontare gli ostacoli.
Questa etica mi mette a disagio. Io spesso non so dove andare, non ho un obiettivo chiaro, mi lascio andare dall'esplorazione di cose che mi interessano senza una tesi da dimostrare. Non ho un'opinione su tutto, non ho un obiettivo sempre né una posizione da sostenere. Improvvisazione, la chiamo io, curiosity-driven research la chiamerebbero gli inglesi.
Esplorare, lasciarti portare dall'oggetto che si scopre e non dal soggetto che si vuole essere. Una forma di pensiero debole, entità debole aperta però ad agire, re-agire, plasmare l'oggetto dopo averne riconosciuto la natura. Non si capisce una macchina fino ad averla guidata, ma talvolta anche lasciarsi trasportare come passeggero ci può stare.
Mi è capitato di lasciarmi portare dalle città in cui arrivavo. Ricordo Edinburgh, la notte in cui arrivai senza neanche una carta della città perché era persa col bagaglio. Chiesi al tassista di portarmi in università. Della città non sapevo niente, neanche che ci fosse un castello, avevo visto solo qualche foto di Prince Street col monumento a Walter Scott, la città capitale del nord mi sorprese, mi ammaliò, mi svelo strade e percorsi che neanche immaginavo. Non avevo una tesi da dimostrare; Edinburgh mi fece rinascere insegnandomi a prendere le strade, ad andare in salita come in discesa, verso il castello o il Parlamento, con amici o da solo.
Ecco, io non conosco il percorso. Non chiedetemi la parola che squadri la realtà, come diceva il maestro. Io, semplicemente, non sempre so, ma sapendolo mi preparo ad impararlo. Certo, qualche volta finisco in qualche guaio, qualche pasticcio, una certa confusione ed una rincorsa all'ultimo. Ma diciamo che così è creativo, si scopre, si esplora.
Una birra, grazie.
Questa etica mi mette a disagio. Io spesso non so dove andare, non ho un obiettivo chiaro, mi lascio andare dall'esplorazione di cose che mi interessano senza una tesi da dimostrare. Non ho un'opinione su tutto, non ho un obiettivo sempre né una posizione da sostenere. Improvvisazione, la chiamo io, curiosity-driven research la chiamerebbero gli inglesi.
Esplorare, lasciarti portare dall'oggetto che si scopre e non dal soggetto che si vuole essere. Una forma di pensiero debole, entità debole aperta però ad agire, re-agire, plasmare l'oggetto dopo averne riconosciuto la natura. Non si capisce una macchina fino ad averla guidata, ma talvolta anche lasciarsi trasportare come passeggero ci può stare.
Mi è capitato di lasciarmi portare dalle città in cui arrivavo. Ricordo Edinburgh, la notte in cui arrivai senza neanche una carta della città perché era persa col bagaglio. Chiesi al tassista di portarmi in università. Della città non sapevo niente, neanche che ci fosse un castello, avevo visto solo qualche foto di Prince Street col monumento a Walter Scott, la città capitale del nord mi sorprese, mi ammaliò, mi svelo strade e percorsi che neanche immaginavo. Non avevo una tesi da dimostrare; Edinburgh mi fece rinascere insegnandomi a prendere le strade, ad andare in salita come in discesa, verso il castello o il Parlamento, con amici o da solo.
Ecco, io non conosco il percorso. Non chiedetemi la parola che squadri la realtà, come diceva il maestro. Io, semplicemente, non sempre so, ma sapendolo mi preparo ad impararlo. Certo, qualche volta finisco in qualche guaio, qualche pasticcio, una certa confusione ed una rincorsa all'ultimo. Ma diciamo che così è creativo, si scopre, si esplora.
Una birra, grazie.
0 commenti:
Posta un commento