No, sono due storie separate.
Nella tradizione italiana, quella della gente d'Appennino, che si dileggia a memoria sui versi di Dante e che canta Guccini, il Lupo è il cattivo. Bestia ferina, concreta, quotidiana, minacciosa, ma anche mitica, mistificata, temuta. Ho parlato spesso del lupo su queste e altre righe, animale che ricorre spesso assieme alle mie origini profondamente italiane, italiche, italiote.
Il lupo agisce in branco o in solitario, ma per il lupo non esiste dentro o fuori dal branco. O sei dentro, oppure sei una possibile vittima. Se ferito, il lupo si ritira sui boschi, solitario, per non dare la soddisfazione al carnefice di vederlo morire davanti agli occhi. Il lupo sa quand'è tempo di ritirarsi e, ancor di più, attacca solo se ha fame, ma ha ben presente quando è meglio starsene lontani e patire la fame. Ché la tradizione italiana dice "fidarsi è bene, non fidarsi è meglio".
Nella mitologia italiana, più famoso e diverso da tutto è il lupo di Gubbio, anche lui appenninico ma laggiù il Lambrusco non arriva. Solo l'amore di Dio ha saputo domarlo, e ci volle il più grande dei Santi per domare un lupo.
Oggi, abituati ad alieni e mostri, non facciamo neanche più caso alla paura del lupo. Lo deridiamo cantandolo, inneggiandolo, ironizzando su quanto possa fare paura oggi un lupo. Tutto ciò mi mette tristezza perché quella del lupo è una figura ancestrale, rinnovata nei secoli. Il lupo è la paura concreta, fisica, ringhiante che abbiamo di fianco e che all'improvviso salta fuori dal bosco, anche quando eri tranquillo nel cercar funghi dalle parti di Berceto o sù di là.
A differenza del serpente, il lupo non ha un veleno che infetta. Ci si può difendere, ma è possibile che nella notte la paura si concretizzi e ti porti via quello che i pastori hanno di più prezioso. La storia del lupo è storia da raccontare, da tenere viva, da tramandare ricordando che ognuno la può raccontare a modo suo: ognuno può essere o temere un lupo, ognuno può ritirarsi ferito oppure cacciarlo prima che gli porti via il suo gregge.
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Ambrogio da Treviri era uomo delle istituzioni, quando studiò, e tale rimase quando morì, nel mezzo un'incredibile storia che le apologie non potranno mai restituirci completamente. Ambrogio era uomo dell'Impero, Prefetto, uomo di Stato, di cultura, di intelligenza e di senso dei tempi che stava vivendo. Poi, successe. Sì, successe che venne acclamato Vescovo di Milano, lui che manco era battezzato. Successe e non dipendeva dalla sua volontà. Fu un Dio fatto popolo ad acclamarlo.
Ambrogio da Treviri si spogliò delle sue vecchie vesti da prefetto e divenne Vescovo perché viene un momento in cui, chiamati, non si può dir di no. La differenza è tra chi capisce che quella era la chiamata del Dio che è Amore e tra chi lo fa per opportunismo, convinto così di poter unire le "cadreghe": doppio palazzo, doppi benefici, doppio potere. Ambrogio si spogliò della vecchia vita, a costo di rinunciare a tutto: soldi, amici, famiglia. Chi non capì, lo prese per folle. La madre e la sorella gli rimasero vicino perché capirono che quella era la chiamata di Dio.
Poco importano gli errori di Ambrogio, lui lavorò per l'istituzione ecclesiastica ché allora era ancora comunità precaria e perseguitata. Lui capì ché bisognava fare il salto, istituzionalizzarsi, crearsi una stabilità che andasse al di là dei tempi. Chiamò Agostino e altri grandi intellettuali del tempo. Si batté a chiare lettere per la libertà di culto cristiano, perché si potesse dire quello che si pensava. Perse amici, quelli pagani. L'Ambrogio di Treviri divenne il Santo di Milano, padre e dottore della Chiesa, quella unica e unita di allora.
Credo che con Sant'Ambrogio abbia portato la Fede cristiana ad essere qualcosa di "adulto". Non voglio entrare in discussioni di storia della Teologia che di certo non mi compete, probabilmente la mia è solo apologia di un Santo a me caro. Ma come d'altronde insegna lo stesso Sant'Ambrogio, i Santi sono importanti perché sono esempi concreti di come deve essere condotta la Vita Cristiana, la vita nell'Amore di Dio. Dice Gesù: “Da come vi amerete, mi riconosceranno, riconosceranno che siete miei discepoli”. Ecco, in quel "come" c'è tutto il senso dell'esperienza cristiana, che è un concreto atto di Amore. Atto difficile, faticoso, faticosissimo e di cui, certamente, chi scrive non può dirsi un buon testimone.
Lo fece Ambrogio, accettando la chiamata del popolo milanese, spogliandosi di ciò che era prima, senza mezzi termini o ambiguità e accettando di vivere fino in fondo combattendo per quello che sentiva come l'Amore di Dio. Rinnegò i vecchi amici dell'opportunità in favore della nuova, riconosciuta come vera.
Lo fece Francesco, ché del Lupo fu domatore, di spogliarsi delle vesti che lo legavano alla vita agiata dei mercanti, agli ori, ai lussi dell'Assisi di quel tempo. Quel piccolo povero lupo ché si lasciò domare riconoscendovi l'Amore di Dio, quello concreto dell'abbraccio del Santo povero che in Dio trovava la forza di affrontare il lupo.
Chiudo questo lungo post con una delle storie che da sempre più mi affascina e trovo incredibilmente potenti. I Discepoli di Emmaus non riconobbero il Cristo risorto quando lo incontrarono lungo la strada. Non capirono ché era lì con loro a benedire il pane, non riconobbero il Dio-Maestro benché avessero lì la testimonianza più concreta e tangibile. Camminare, senza riconoscere chi si ha di fianco, chi è lì per amarti al punto di donare la propria vita per la tua salvezza, chi ti è di fianco nei gesti più concreti e semplici come lo spezzare del pane.
Provo spesso a immaginare la loro condizione quando, dopo un momento, capirono. Capirono cosa avevano fatto, chi avevano incontrato, chi si erano lasciati scappare eppure scelsero poi di seguirlo anche se Lui non era più lì con loro, spogliandosi di tutti i loro dubbi e Credendo.
Tutte queste storie vi sono raccontate perché crediate, ché se c'è l'Amore è quello di Dio e che se c'è il Perdono è solo perché Cristo l'ha insegnato agli uomini. Queste storie non sono raccontate perché vere e documentate, ma perché sono insegnamenti da cui apprendere, da cui apprendere a credere in Dio rinunciando a certe esitazioni ed evanescenze dell'età giovanile ché non significa non avere più domande né dubbi (anzi), sono insegnamenti ché Io stesso ho bisogno di ripetermi perché, innegabilmente, sono un pessimo Cristiano: Io che con questa Chiesa faccio fatica ad andare d'accordo, io ché nei gesti non sarei mai riconosciuto suo discepolo, io ché semplicemente ho scelto di credere perché, altrimenti, non sarebbero possibili l'Amore e ciò che ne consegue, come la Fiducia nell'Uomo, il Perdono. Quel Perdono ché non è cosa umana, ma affar Divino.
Chiudo con una citazione ché mi interroga grandemente ed a cui trovo una sola risposta, intuibile da quanto scritto finora, ma che in fondo si ricollega alla storia del Lupo: "Come può la debolezza promettere di non essere più debole?" (S. Ambrogio).
PS
Non ho riletto, ovviamente.
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